Warner Bros ha deciso di spendersi per supportare Wonder Woman per la corsa agli oscar 2018 e, sebbene nella pagina “For Your Consideration appena allestita dalla major la pellicola figuri per correre in quasi tutte le categorie possano venirvi in mente, l’obiettivo dichiarato, il sogno proibito, sono “Miglior Film” e “Miglior Regia”.

Nolan può comunque dormire sonni tranquilli, il prossimo anno con tutta probabilità sarà lui a stringere la statuetta e se non andrà così sarà magari Villeneuve (o Spielberg) a rovinargli la serata, non certo Patty Jenkins: è tutto da vedere se Wonder Woman sarà anche solo annunciato tra i candidati il prossimo 23 gennaio. Ma la decisione della Warner Bros è una notizia che merita una riflessione, quantomeno per capire se ha senso spingere verso gli oscar il film su Diana Prince, tanto più che la stessa regista si è trovata a essere felicemente incredula all’idea “It’s just not something you consider when you make these kinds of movies […]  I’m so flattered and stunned…

Dal punto di vista della Warner Bros è una mossa economica strategica che nel peggiore dei casi garantisce un potente ritorno d’immagine. Mai come in questo momento storico la conversazione sulla condizione femminile, e il trattamento riservato alle donne dai media, dalla società e dall’industria dell’intrattenimento è il primo argomento da dibattere a tutto campo, dalle aule di tribunale ai social, passando per la politica e il quotidiano. In questa temperie culturale un ottimo film di intrattenimento, che in una società votata all’equità tra i generi sarebbe la norma, diviene un oggetto raro, prezioso, addirittura una conquista.

Mentre alla rivale Marvel sono stati necessari circa 20 film di successo per arrivare a concedere una possibilità a una produzione con un lead femminile, Capitan Marvel, e mentre la stessa Marvel valutava meno rischioso puntare su un film con un procione parlante armato piuttosto che concedere a Black Widow un solo movie, la DC, per non sapere né leggere né scrivere, al quarto film tira fuori Wonder Woman e colpisce tutti i bersagli raggiungibili: incassi, qualità, favore del pubblico, favore della critica (soprattutto USA), monopolizzando nel mentre la conversazione.

Non mancano i detrattori e, soprattutto, non scarseggia la presenza di chi invita le donne a non accontentarsi di un film così “semplice”, oppure di chi considera il personaggio di Diana privo di spessore, una protagonista che non brilla per intelligenza. Ecco, qui bisognerebbe anche capire cosa si intende per intelligenza: Tony Stark, ad esempio, è un genio ma come uomo è un perfetto imbecille. Non poteva nemmeno mancare chi riduce l’intero film a una giovane donna che prende pieno possesso del proprio potenziale grazie all’amore di un uomo: anche se fosse così, c’è da chiedersi perché l’amore verso una donna per i protagonisti maschili è nobilitante e redimente mentre l’amore per una donna è roba da “femmine”. Il solo fatto di dover scardinare un assunto tanto dequalificante fa capire quanto è importante un film come Wonder Woman che dà finalmente alle donne quello che gli uomini hanno da sempre.

Parlare dunque di come Wonder Woman rappresenti un ariete che può abbattere tutte quelle porte finora sprangate per le donne, aiuta a capire perché non solo la Warner Bros ha operato una scelta giusta, ma perché quella scelta è legittima e meritoria per il film di Patty Jenkins.

Non che non siano mai esistite eroine: Ellen Ripley e Sarah Connor sono icone femminili immortali, ma allo stesso tempo memorie distanti nel tempo. Più di recente abbiamo avuto Atomic Blonde e, sempre con Charlize Teheron, Furiosa. Bene così. Ma Wonder Woman si è posizionata con forza in un universo smaccatamente maschile e attualmente dominante, quello dei cinecomics, e in questo contesto sta crescendo non solo le bambine a vedersi in modo diverso da principesse vezzose, ma sta educando anche i bambini a percepire il mondo come un luogo in cui le donne possono essere eroi, guerriere, combattenti, leader, protagoniste assolute e godere di quel mondo senza sentirsene minacciati o tagliati fuori.

Wonder Woman, il film, va dal punto A al punto B senza perdersi per strada, fa tutto quello che deve fare in modo semplice, diretto ed efficace. Non inventa nulla di nuovo e non innova in termini cinematografici, non farà scuola come per esempio, a loro modo, Gravity o Dunkirk, nondimeno ha avuto e continua ad avere un impatto debordante sulla cultura. Si è dibattuto se Wonder Woman sia un film femminista o meno. Non ha scoperto il fuoco, ma ha permesso che finalmente anche le donne usassero quel fuoco. È femminismo anche questo? Sì.

Gal Gadot, un’autentica dea nell’interpretare il ruolo, regala una protagonista che persegue un’ideale di giustizia, e lo persegue anche con una certa cocciutaggine: ha una tabella di marcia da seguire, valuta, decide per sé e va per la sua strada e gli altri, incluso il personaggio maschile principale, possono solo adeguarsi. Il momento chiave del film è tutto in una scena che condivide l’essenza di una scena analoga in Fury Road: Diana e Steve sono accerchiati in un vicolo, Steve istintivamente cerca di proteggere Diana salvo farsi da parte non appena diventa evidente che Diana non solo non ha bisogno di aiuto, ma è proprio lei ad avere la capacità di proteggere gli altri. La realizzazione del potere di Diana da parte di Steve è immediata e indiscussa. E questo manca pesantemente e disperatamente: la norma è vedere la protagonista femminile sputare sangue ed essere costantemente messa sotto scrutinio per poter essere accettata alla pari di un personaggio maschile, accettazione che passa invariabilmente dall’essere giudicata in base a standard maschili.

L’entusiasmo, la gioia, che Wonder Woman ha suscitato è tutta in quella scena lì: una donna il cui potere è accettato pacificamente e accolto con sollievo (fortuna è dei nostri!). E sì, poi c’è lei che atterra un intero esercito a mani nude, annienta i nemici, risolve una guerra e furoreggia sul campo di battaglia, tutti ulteriori motivi per uscire fuori dal cinema galvanizzate, felici e soddisfatte come quasi mai accade al pubblico femminile.

I premi dell’Academy non atterrano su un terreno neutro, sono riconoscimenti che hanno una risonanza e un valore non solo artistico, ma segnano il passo politico e sociale. È sufficiente pensare al 2016 – gli “oscar so white” – o a quest’anno e alla forza con cui è stata auspicata e poi accolta la vittoria di Moonlight su La La Land.

In questo momento storico Wonder Woman è il film che serve all’Academy, all’industria cinematografica e a noi spettatori. Nel 2010  Kathryn Bigelow vinse come miglior regista con The Hurt Locker: qualcuno ha avvertito da quel momento un mutamento di tendenza, un’industria più incline a concedere opportunità alle donne? Wonder Woman, come dicevo più su, è l’ariete che ci serve.



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Mara Ricci

Serie tv, Joss Whedon, Jane Austen, Sherlock Holmes, Carl Sagan, BBC: unite i puntini e avrete la mia bio. Autore e redattore per Serialmente, per tenermi in esercizio ho dedicato un blog a The Good Wife.

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